TITORI
Qui la versione in dialetto
ndr: titòri
Appena l'acqua lasciò la valle, il comune scavò
un fosso di scolo ogni tanto, cosi' ne risultarono molti appezzamenti di terreno che
vennero chiamati "le taje", e vennero affittati per poco alle famiglie più
povere del paese. Alla fine ne avanzarono quttro-cinque e per evitare discussioni tra
quelli che ne volevano ancora le tirarono a sorte facendo il "cavapaieta".
A Bernardo che abitava ai confini del paese, ma dall'altra parte, toccò la taja più
lontana, proprio l'ultima. L'uomo protestò, ma non ci fu niente da fare.
A dir la verità queste taje erano tutte distanti dal paese e per
quelli che andavano a piedi era una crociata: quando arrivavano si dovevano riposare prima
di iniziare il lavoro e quando dovevano fare lavori che duravano a lungo, come zappare,
mietere, raccogliere, si portavano la merenda e anche il pranzo e mangiavano seduti
sull'erba in fondo al campo.
Per quelli che avevano l'asino le cose andavano un po' meglio perché
arrivavano riposati, durante il viaggio stavano seduti e in caso di pioggia la stuoia
sulla quale si sedevano veniva distesa sulle sbarre del carro e faceva da tetto.
Col passare degli anni le figlie di Bernardo si sposarono tutte e lui
morì. In famiglia rimasero solo i tre maschi: Silvio, Cesare, Dante e la madre. Ma Dante,
il più giovane, non era del tutto normale, aveva un po' di confusione nel cervello,
diceva il prete, e i paesani invece dicevano che aveva il granaio scoperto e che non aveva
tutte le fascine a posto. Ma anche se Dante era molto buono e non faceva del male neanche
ad una mosca, i suoi fratelli e la madre non potevano affidargli niente perché per lui
fare una cosa, o l'altra, era lo stesso. Una volta sua madre lo mandò a comprare tre etti
di conserva e lui arrivò a casa con due etti di pepe; un'altra volta i fratelli lo
portarono con loro per diradare le piantine di mais e lui le tagliava tutte, nessuna
esclusa.
Dante più che altro viveva a spasso per i campi e per il paese,
ed era diventato il passatempo della gente, perché tutti si divertivano a ridere,
scherzare e a fargli dire stramberie. I bambini se la godevano un mondo.
Una volta uno del paese diede a Dante una bella tromba, tutta in
ottone, e gli insegnò a suonarla. Il ragazzo questa tromba non la lasciò mai più,
se la portava anche a letto, non la prestava a nessuno e continuò a suonarla
diversi anni. Si sedeva su un cumulo di ghiaia o sotto un filare di viti e suonava per ore
e ore e sempre quella, fu per questo che lo soprannominarono "Titòri". La
maggior parte delle persone lo sopportavano e molti si divertivano ad ascoltarlo perché
dicevano che faceva andar via i pensieri. Ormai in paese non era più conosciuto per Dante
ma per Titori.
All'imbocco del paese c'era un ponte e venne il tempo che Titori prese
il vizio di suonare stando seduto sul muretto di questo ponte a tutte le ore, anche
all'una del pomeriggio quando la gente prima di andare a lavorare faceva un pisolino.
Queste famiglie quando si videro condannate a non poter più dormire il pomeriggio,
tentarono di convincere Titori ad andare a suonare da qualche altra parte, ma non ci fu
verso che capisse alcuna ragione. Allora in sette-otto si misero d'accordo, lo distrassero
dalla tromba, che lui lascio sul muretto, uno prese una manciata di fieno che era per
terra e con un bastoncino lo spinse con forza dentro lo strumento.
Titori, quando capì che la sua tromba non avrebbe più suonato, si
vide perduto; in paese alcune donne con i ferri da calza provarono a cavar fuori quel
fieno, ma non riuscirono a toglierlo tutto e la tromba non suonò più come prima. Il
paese pareva morto. Molti rimproverarono quelli del ponte dicendo: "Sembra tutto
diverso adesso che non sentiamo più Titori che con la sua tromba ci dava un po' di
allegria, di vita, adesso sembra di essere in un cimitero."
Una volta la gente di campagna andava, per i bisogni fisiologici, in
qualunque posto: bastava che fossero un po' nascosti e andava bene, ma il posto più
indicato di tutti era dietro i pagliaio. Un anno, la madre di Titori aveva quasi tutte le
galline che andavano a fare l'uovo dietro il pagliaio e questa donna quando andava a
raccogliere le uova trovava anche quello che non avrebbe voluto trovare e così ordinò ai
figli di costruire, in fondo al cortile, un piccolo recinto di canne (sarajeto).
Un giorno, a tavola, fissando bene negli occhi Titori, la donna
sentenziò: "Adesso basta andare a farla in giro, bisogna andare dentro il
"sarajeto". Tutti compresero e nessuno fiatò.
Cesare e Silvio erano molto preoccupati per la taja della valle. Quando
dovevano arare era più il tempo che ci voleva per andare e venire che non quello che gli
restava per arare. In quell'anno i due giovani erano rimasti indietro con le arature e la
famiglia era molto preoccupata. Infatti, se avesse piovuto, sarebbe rimasta da arare, dato
che la terra di valle bagnata, si attacca all'aratro, fa il filo e non si può lavorare.
Sfortuna volle che Cesare, cadendo malamente su uno sprocco, si bucò
un piede e non poteva camminare. Appena compreso che Cesare ne avrebbe avuto per un bel
pezzo, la madre disse a Silvio: "Senti, prova a convincere Titori a venire con te; a
condurre i buoi è capace e pregheremo il Signore che sia di buona luna, da riuscire ad
arare la terra altrimenti ci rimane incolta." Silvio comprese che era l'unica cosa da
tentare e parlò a suo fratello; per fortuna lo convinse.
La mattina dopo attaccate le quattro vacche all'aratro, con davanti, a
bilancino, l'asino e appesa sulle branche dell'attrezzo la sporta con la merenda e una
zucca di "graspìa", partirono.
Attraversarono il paese e poi, con queste quattro vacche magrissime,
perchè costrette a mantenere il vitello, a lasciarsi mungere, a lavorare e mangiare male,
camminando un po' traballando, presero lo stradone che porta alla valle.
La madre a casa era tutta contenta e dentro di sé pensava:
"Signore, non ci resterà la terra da arare? Speriamo che Titori abbia la luna
giusta".
Silvio, camminando, pensava dentro di sè: "meno male che mio
fratello questa mattina è di buon'umore e, se mi riesce, lavoriamo un'ora in più, così
ci portiamo avanti." Ma fatti cinque-sei solchi, Titori ferma le bestie, pianta in
terra il pungolo, va da Silvio e gli dice: "Mi scappa."
L'altro gli risponde: "tirati dietro quei salici rossi e
falla."
"No, no dice Titori, non bisogna farla in giro, bisogna andare nel
sarajeto" e, così dicendo buttata la giacchetta sulla spalla, parte.
Torna alla versione in dialetto
Torna a Bepi Famejo